venerdì 27 novembre 2009

Il nuovo blog

Cari amici, voglio farvi sapere che ho aperto un nuovo blog.
Nel nuovo blog si parlerà di spiritualità traendo i post dai vari scritti dei santi.
L'indirizzo del nuovo blog è:
ilpiccologregge.blogspot.com

La gioia cattolica

mercoledì 23 settembre 2009

IL VESCOVO E LA PREGHIERA

DISCORSO DEL SANTO PADRE
del 21 settembre 2009

Cari Fratelli nell’Episcopato!

Grazie di cuore per la vostra visita, in occasione del convegno promosso per i Vescovi che da poco hanno intrapreso il loro ministero pastorale.

Queste giornate di riflessione, di preghiera e di aggiornamento, sono davvero propizie per aiutarvi, cari Fratelli, a meglio familiarizzare con i compiti che siete chiamati ad assolvere come Pastori di comunità diocesane; sono anche giornate di amichevole convivenza che costituiscono una singolare esperienza di quella "collegialitas affectiva" che unisce tutti i Vescovi nell’unico corpo apostolico, insieme al Successore di Pietro, "perpetuo e visibile fondamento dell’unità" (Lumen gentium, 23).

Ringrazio il Cardinale Giovanni Battista Re, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, per le cortesi espressioni che mi ha rivolto a nome vostro; saluto il Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ed esprimo la mia riconoscenza a quanti in vari modi collaborano all’organizzazione di questo annuale incontro.

Quest’anno, il vostro convegno si inserisce nel contesto dell’Anno Sacerdotale, indetto per il 150° anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney. Come ho scritto nella Lettera inviata per l’occasione a tutti i sacerdoti, questo anno speciale "vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi".

L’imitazione di Gesù Buon Pastore è, per ogni sacerdote, la strada obbligata della propria santificazione e la condizione essenziale per esercitare responsabilmente il ministero pastorale. Se questo vale per i presbiteri, vale ancor più per noi, cari Fratelli Vescovi. Ed anzi, è importante non dimenticare che uno dei compiti essenziali del Vescovo è proprio quello di aiutare, con l’esempio e con il fraterno sostegno, i sacerdoti a seguire fedelmente la loro vocazione, e a lavorare con entusiasmo e amore nella vigna del Signore.

A questo proposito, nell’Esortazione postsinodale Pastores gregis, il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II ebbe ad osservare che il gesto del sacerdote, quando pone le proprie mani nelle mani del Vescovo nel giorno dell’ordinazione presbiterale, impegna entrambi: il sacerdote e il Vescovo. Il novello presbitero sceglie di affidarsi al Vescovo e, da parte sua, il Vescovo si impegna a custodire queste mani (Cfr n.47).

A ben vedere questo è un compito solenne che si configura per il Vescovo come paterna responsabilità nel custodire e promuovere l’identità sacerdotale dei presbiteri affidati alle proprie cure pastorali, un’identità che vediamo oggi purtroppo messa a dura prova dalla crescente secolarizzazione.

Il Vescovo dunque – prosegue la Pastores gregis – "cercherà sempre di agire coi suoi sacerdoti come padre e fratello che li ama, li accoglie, li corregge, li conforta, ne ricerca la collaborazione e, per quanto possibile, si adopera per il loro benessere umano, spirituale, ministeriale ed economico" (Ibidem, 47).In modo speciale, il Vescovo è chiamato ad alimentare nei sacerdoti la vita spirituale, per favorire in essi l’armonia tra la preghiera e l’apostolato, guardando all’esempio di Gesù e degli Apostoli, che Egli chiamò innanzitutto perché "stessero con Lui" (Mc 3,14).

Condizione indispensabile perché produca frutti di bene è infatti che il sacerdote resti unito al Signore; sta qui il segreto della fecondità del suo ministero: soltanto se incorporato a Cristo, vera Vite, porta frutto.

La missione di un presbitero e, a maggior ragione, quella di un Vescovo, comporta oggi una mole di lavoro che tende ad assorbirlo continuamente e totalmente. Le difficoltà aumentano e le incombenze vanno moltiplicandosi, anche perché si è posti di fronte a realtà nuove e ad accresciute esigenze pastorali. Tuttavia, l’attenzione ai problemi di ogni giorno e le iniziative tese a condurre gli uomini sulla via di Dio non devono mai distrarci dall’unione intima e personale con Cristo.

L’essere a disposizione della gente non deve diminuire o offuscare la nostra disponibilità verso il Signore. Il tempo che il sacerdote e il Vescovo consacrano a Dio nella preghiera è sempre quello meglio impiegato, perché la preghiera è l’anima dell’attività pastorale, la "linfa" che ad essa infonde forza, è il sostegno nei momenti di incertezza e di scoraggiamento e la sorgente inesauribile di fervore missionario e di amore fraterno verso tutti.
Al centro della vita sacerdotale c’è l’Eucaristia. Nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis ho sottolineato come "la Santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione" (n. 80). La celebrazione eucaristica illumini dunque tutta la vostra giornata e quella dei vostri sacerdoti, imprimendo la sua grazia e il suo influsso spirituale sui momenti tristi o gioiosi, agitati o riposanti, di azione o di contemplazione.

Un modo privilegiato di prolungare nella giornata la misteriosa azione santificante dell’Eucaristia è la devota recita della Liturgia delle Ore, come pure l’adorazione eucaristica, la lectio divina e la preghiera contemplativa del Rosario.

Il Santo Curato d’Ars ci insegna quanto siano preziose l’immedesimazione del sacerdote al Sacrificio eucaristico e l’educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione. Con la Parola e i Sacramenti – ho ricordato nella Lettera ai Sacerdoti – san Giovanni Maria Vianney ha edificato il suo popolo. Il Vicario Generale della diocesi di Belley, al momento della nomina a parroco di Ars, gli aveva detto: "Non c’è molto amore di Dio in quella parrocchia, ma voi ce lo metterete!". E quella parrocchia fu trasformata.

Cari Vescovi novelli, grazie per il servizio che rendete alla Chiesa con dedizione e amore. Vi saluto con affetto e vi assicuro il mio costante sostegno unito alla preghiera perché "andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga" (Gv 15,16)
Per questo invoco l’intercessione di Maria Regina Apostolorum, ed imparto di cuore su voi, sui vostri sacerdoti e sulle vostre comunità diocesane una speciale Benedizione Apostolica.


© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

martedì 22 settembre 2009

NECESSITA' DI UN PADRE SPIRITUALE



Quando il giovane Tobia ricevette l'ordine di recarsi a Rage, rispose: "Non conosco la strada". Il padre gli disse allora: "Va' tranquillo e cerca una guida".

Ti dico la stessa cosa, Filotea. Vuoi camminare verso la devozione con sicurezza? Trova una guida che ti accompagni; è la raccomandazione più importante.

Cara Filotea, prega Iddio, con grande insistenza, che ti provveda una guida secondo il suo cuore; e poi non dubitare: ti manderà una guida capace e fedele.

Quando l'avrai trovato, non fermarti a stimarlo come uomo, e non riporre la fiducia nelle sue capacità umane, ma in Dio soltanto, che ti incoraggerà e ti parlerà tramite quell'uomo.

Parla con lui a cuore aperto, in piena sincerità e schiettezza; manifestagli con chiarezza il bene e il male senza falsità e dissimulazione.

"A tal fine, scegline uno tra mille".dice il devoto Avila; io ti dico, uno tra diecimila, perchè se ne trovano pochissimi capaci di tale compito. Deve essere ricco di carità, di scienza e di prudenza: se manca una di queste qualità, c'è pericolo.

Chiedilo a Dio e, una volta che l'hai trovato, benedici la sua divina Maestà, fermati a quello e non cercarne altri; ma avviati, con semplicità, umiltà e confidenza; il tuo sarà un viaggio felice.


Tratto da: FILOTEA- Introduzione alla vita devota

giovedì 17 settembre 2009

PENSIERI

L' Eucarestia è un nutrimento che ha un dolce sapore. Appiana le difficoltà, guarisce le nostre malattie, scaccia la tentazione, viene in aiuto ai nostri sforzi e conferma nella speranza.

Baudoin De Ford

Chiese brutte:problema educativo o "politico"?

Ho letto ieri l’articolo del Giornale che riportava il giudizio espresso da Mons. Ravasi sulle chiese moderne: «Un certo cattivo gusto nelle chiese, oggi, è un dato di fatto. Per questo è indispensabile una formazione di tipo estetico a partire dai seminari e dalle parrocchie».

Tale intervento è stato accolto favorevolmente, come segno di un’inversione di tendenza della Chiesa in campo artistico. Da parte mia, mi permetto di fare qualche considerazione.

Non voglio parlare del passato; sarebbe del tutto inutile: il passato è passato. Concentriamoci piuttosto sul presente e sul futuro. Ebbene, mi sembra abbastanza comodo — oltreché velleitario — pensare di risolvere il problema appellandosi alla formazione. Oggi sembra che tutti i problemi si possano e si debbano risolvere sul piano educativo.
Per carità, sono il primo a riconoscere il ruolo basilare e insostituibile dell’educazione; ma non è vero che le responsabilità vadano sempre e solo individuate in un difetto di formazione. Perché, se cosí fosse, qualsiasi problema sarebbe esclusivamente un problema della “base”. Il che mi sembra, onestamente, un comodo alibi, con cui i “vertici” cercano di nascondere le proprie responsabilità. I problemi hanno, il piú delle volte, cause “politiche”, e attendono, per essere risolti, soluzioni “politiche”.

Da parte mia, non ho nulla, in linea di principio, contro una “formazione estetica” nei seminari (semmai, mi chiedo come questa possa avvenire in una parrocchia...). Siccome però sono direttamente coinvolto nel lavoro di formazione, ho l’impressione che talvolta ci si attenda troppo da noi formatori: dovremmo essere in grado non solo di dare una formazione spirituale-teologica ai candidati al sacerdozio, ma prima di questa dovremmo assicurare ai seminaristi una formazione umana e culturale, e successivamente dovremmo completare la loro formazione con un addestramento pastorale e con corsi integrativi nei piú svariati settori (che vanno dall’economia alla politica, dalle scienze umane alla tecnologia, e chi piú ne ha piú ne metta: adesso aggiungiamoci anche l’arte). Sinceramente, non vi sembra un po’ troppo? Abbiamo già da sudare sette camicie, perché i candidati giungono in seminario senza alcuna formazione di base: non è piú come una volta che si entrava in seminario da bambini e tutti seguivano, nel seminario stesso, gli studi classici; oggi arrivano con studi un po’ raffazzonati, e tu devi ricominciare da capo, a partire dalle abilità linguistiche di base, spesso carenti (altro che latino e lingue bibliche e moderne...). Figuriamoci, ora dobbiamo dare loro anche una formazione estetica. Ma ci si rende conto che oggi la maggior parte dei candidati viene dal terzo mondo, dove non si ha idea di che cosa sia l’arte? Ma, in ogni caso, si può accettare la sfida, in quanto anche un pizzico di estetica fa parte di una educazione integrale.



Il problema però, a mio parere, non sta qui, nella formazione dei futuri sacerdoti. Semplicemente perché non è il povero parroco che decide della costruzione di una chiesa. È vero, molto spesso la parrocchia viene eretta prima della costruzione della chiesa, per cui il parroco ha una responsabilità nella richiesta e ispirazione dei progetti. Ma poi tali progetti devono essere approvati dalla commissione o dai responsabili deputati in ogni diocesi per l’architettura sacra. Quindi il problema non è tanto quello di avere parroci con senso estetico (ovviamente, se ce l’hanno, tanto meglio); il problema è, appunto, un problema “politico”: sono gli organi diocesani competenti che devono funzionare. Se viene presentato il progetto di una chiesa-scatola, esso deve semplicemente essere cestinato. Ci vuol tanto? Allora il vero problema è, sí, un problema di formazione, ma non tanto di formazione del clero, quanto piuttosto di formazione dei tecnici, di coloro che prendono le decisioni in materia.

Tali organi competenti dovrebbero avere delle regole ben precise, valide per tutti, e non lasciate al gusto personale di questo o quell’esperto. Per esempio, la prima regola, suggerita dal buon senso, dovrebbe essere che, quando si deve costruire una chiesa, ci si deve rivolgere a un architetto cristiano-cattolico-praticante-esperto in liturgia, non a un architetto qualsiasi, fosse pure di grido. Mi dite voi che senso ha far progettare una chiesa a un architetto ebreo o, addirittura, ateo? E poi ci meravigliamo che le chiese moderne sono fredde, senz’anima... Ma che volete che ne capisca di una chiesa un architetto non-credente? Per lui sarà unicamente una questione di luci e di volumi. Ancora una volta dunque si pone, sí, un problema di formazione, ma di formazione di artisti cristiani. Il principio dell’art pour l’art nella Chiesa non trova spazio; o l’arte sacra è espressione della fede (e non di una fede astratta, ma di una fede vissuta), o non è.


Pubblicato da Querculanus sul
blog senza peli sulla lingua

mercoledì 16 settembre 2009

CHIESE O GARAGE?


«Un certo cattivo gusto nelle chiese, oggi è un dato di fatto. Per questo è indispensabile una formazione di tipo estetico a partire dai seminari e dalle parrocchie».


È quanto ha detto monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia commissione per i beni culturali, illustrando qualche giorno fa ai giornalisti l’incontro del 21 novembre del Papa con gli artisti. Ricordando una frase di padre David Maria Turoldo - il religioso e poeta dell’Ordine dei Servi morto nel 1992 - «oggi le chiese sono come un garage dove Dio viene parcheggiato e i fedeli sono tutti allineati davanti a Lui», Ravasi ha esortato a fare del «linguaggio della comunicazione religiosa un linguaggio estetico».


Idea condivisa anche da Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, per il quale «le chiese, che nel Medio Evo erano prefigurazione del Paradiso, ricche di colori, oggi sono grigie e spoglie. È urgente riscoprire le cose positive che possono costruire l’estetica di domani».Del resto monsignor Ravasi, è un sacerdote e un intellettuale da sempre interessato al mondo dell’arte e al rapporto tra estetica ed etica. In particolare da quando è stato nominato presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia commissione per i beni culturali, due anni fa, ha sempre cercato di favorire una riflessione sull’arte sacra, invitando al confronto anche il mondo laico. «Perché il dialogo con l'architettura c'è: le chiese moderne vengono costruite effettivamente da grandi architetti a livello internazionale, quali Renzo Piano, Mario Botta, Kenzo Tange, Tadao Ando, Alvaro Siza e altri. Però queste chiese nell'interno o sono spoglie, perché hanno soltanto l'architettura della luce, o hanno immagini di cattivo gusto, oppure hanno la presenza dell'artigianato soltanto, e non invece, come accadeva in passato, grandi opere d'arte». «Pensiamo alle grandi chiese del Cinquecento, dell'arte barocca, che avevano in sé la meraviglia dell'architettura, ma anche la presenza di artisti come Bernini, per esempio, oppure Tiziano, Veronese - aveva spiegato in occasione di una lunga intervista lo scorso anno -. Pensiamo alle grandi chiese veneziane, quali presenze altissime hanno, dal punto di vista della storia dell'arte».Ravasi ha più volte sollecitato i grandi artisti contemporanei - per esempio negli Stati Uniti Bill Viola, Anish Kapoor per l'India, per l'Europa Jannis Kounellis - a impegnarsi in progetti di arte sacra: «Grandi artisti, che ritornino ancora a rappresentare le grandi immagini religiose, creando anche un interesse da parte della committenza stessa, cioè delle autorità ecclesiali, affinché ripropongano ancora le grandi opere nell'interno delle loro chiese».


© Copyright Il Giornale, 16 settembre 2009

COLLOQUI CON LA FRATERNITA' SAN PIO X

La S. Sede conferma tempi e nomi dei colloqui con la FSSPX.
L'inizio dei colloqui è stabilito per la seconda meta di Ottobre.

Il mese di Ottobre è affidato alla Madonna del Rosario e ben conosciamo l'impegno assunto dalla FSSPX nella Preghiera...e allora, preghiamo dunque che la Vergine Maria porti l'Unità nella Chiesa affinchè presto possa trionfare maggiormente il suo Cuore Immacolato...noi abbiamo bisogno della FSSPX, ma anche loro hanno bisogno di questa PIENEZZA nella Chiesa.


Commento di Caterina63 al post di messa in latino

martedì 15 settembre 2009

L'Addolorata e la Croce

"Che gran libro è il Crocifisso! E' maestro di tutte le virtù...Il Crocifisso è il libro più sapiente che tu possa leggere. Se tu conoscessi tutti gli altri libri, ma non conoscessi questo, rimarresti nell'ignoranza.
( Padre Francesco Bersini)


San Giovanni Crisostomo afferma che chi si fosse trovato allora sul Calvario avrebbe veduto due altari, dove si consumavano due sacrifici: uno nel corpo di Gesù, l'altro nel cuore di Maria.
San Bonaventura parla addirittura di un solo altare, cioè la croce del Figlio, sulla quale, assieme alla vittima dell'Agnello divino, è sacrificata anche la Madre.


Preghiera
O Maria, Vergine addolorata, tu che ti associasti a Gesù sul Calvario, ottienici il dono di poter imparare la pratica della virtù da quel "libro"eccellente che è il Crocifisso, quel libro che anche tu hai scritto con la vita e con quella mirabile partecipazione al sacrificio salvifico del tuo Figlio crocifisso. Amen


dal libro
L'imitazione di Maria









lunedì 7 settembre 2009

PENSIERI

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensi di una Chiesa più divina, solo allora essa sarà anche veramente umana.

Card. Ratzinger

PAPA: DOPO CONCILIO,NELLA CHIESA TROPPE CONCESSIONI IN CAMPO ETICO


Papa Benedetto XVI ha messo in guardia questa mattina dal rischio di una ''auto-secolarizzazione'' della Chiesa, nata dalla volonta' di aprirsi al mondo dettata dal Concilio Vaticano II ma tradottasi in pratica in una disponibilita' a fare troppe ''concessioni'' al mondo secolarizzato, soprattuto in campo etico. Il pontefice ha lanciato il suo monito parlando ad un gruppo di vescovi brasiliani in Vaticano per la quinquennale udienza 'ad limina'.
''Nei decenni successivi al Concilio Vaticano II - ha ricordato papa Ratzinger -, qualcuno ha interpretato l'apertura al mondo non come una esigenza dell'ardore missionario del cuore di Cristo, ma come un passaggio verso le secolarizzazione, scorgendo in quest'ultima alcuni valori di grande densita' cristiana come l'uguaglianza, la liberta', la solidarieta', e mostrandosi disponibili a fare concessioni e a scoprire campi di collaborazione.
Si e' assistito cosi' ad interventi di alcuni responsabili della Chiesa nei dibattiti etici che corrispondevano alle aspettative dell'opinioni pubblica, ma si tralascio' di parlare di certe verita' fondamentali della fede, come il peccato, la grazie, la vita teologica e le cose ultime''.''Senza accorgersene - ha proseguito nella sua analisi il pontefice -, si cadde in una auto-secolarizzazione di molte comunita' ecclesiali che, sperando di riuscire gradite ai lontani, videro allontanrsi, traditi e disillusi, molti di quelli che erano vicini''. In Brasile, dopo i decenni segnati dalla Teologia della Liberazione che riconosceva nei movimenti sociali i segni di ''liberazione'' portati dal Vangelo, la Chiesa cattolica ha visto negli ultimi anni diminuire sensibilmente il numero dei propri fedeli a causa della aggressiva concorrenza delle ''sette''. Invece, ha ricordato il papa ai vescovi, ''i nostri contemporanei, quando vengono a stare con noi, vogliono vedere cio' che non vedono da nessun'altra parte, ovvero l'allegria e la speranza che sorgono dal fatto di stare con il Signore risuscitato''. Oggi, ha osservato ancora il pontefice, ''c'e' una nuova generazione nata in questo ambiente ecclesiale secolarizzato che, invece di registrare aperture e consensi, vede allargarsi nella societa' il divario delle differenze e della contrapposizioni al magistero della Chiesa, soprattutto in campo etico''. Ma, ha aggiunto infine, ''in questo deserto di Dio, la nuova generazione sente una grande sete di trascendenza''.
agenzia ASCA
da papa ratzinger blog

LA PROVVIDENZA

Non temiamo mai che la santa Messa comporti ritardi nei nostri affari temporali; succede tutto il contrario: stiamo certi che tutto andrà meglio, e che anzi i nostri affari riusciranno meglio che se avessimo la disgrazia di non assistervi. Eccone un esempio ammirevole. Viene riferito di due artigiani, che esercitavano lo stesso mestiere e che dimoravano nel medesimo borgo, che uno di essi, carico di una grande quantità di bambini, non mancava mai di ascoltare ogni giorno la santa Messa e viveva assai agevolmente con il suo mestiere; mentre l'altro, che pure non aveva bambini, lavorava parte della notte e tutto il giorno, e spesso il santo giorno della domenica, e a mala pena riusciva a vivere. Costui, che vedeva gli affari dell'altro riuscirgli così bene, gli chiese, un giorno che lo incontrò, dove poteva prendere di che mantenere così bene una famiglia tanto grande come la sua, mentre lui, che non aveva che sé e sua moglie, e lavorava senza posa, era spesso sprovvisto di ogni cosa.

L'altro gli rispose che, se voleva, l'indomani gli avrebbe mostrato da dove gli proveniva tutto il suo guadagno. L'altro, molto contento di una così buona notizia, non vedeva l'ora di arrivare all'indomani che doveva insegnargli a fare la sua fortuna. Infatti, l'altro non mancò di andare a prenderlo. Eccolo che parte di buon animo e lo segue con molta fedeltà. L'altro lo condusse fino alla chiesa, dove ascoltarono la santa Messa. Dopo che furono tornati: " Amico, gli disse colui che stava bene a suo agio, torni pure al suo lavoro". Fece altrettanto L'indomani; ma, essendo andato a prenderlo una terza volta per la stessa cosa: «Come? - gli disse l'altro. Se voglio andare alla Messa, conosco la strada, senza che lei si prenda la pena di venirmi a prendere; non è questo che volevo sapere, bensì il luogo dove trova tutto questo bene che la fa vivere così agiatamente; volevo vedere se, facendo come lei, posso trovarvi il mio tornaconto». - «Amico, gli rispose l'altro, non conosco altro luogo oltre la chiesa, e nessun altro mezzo fuorché l'ascoltare ogni giorno la santa Messa; e quanto a me, le assicuro che non ho adoperato altri mezzi per avere tutto il bene che la stupisce. Ma lei non ha letto ciò che Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, di cercare anzitutto il regno dei cieli, e che tutto il resto ci sarà dato in soprappiù?».

Forse vi stupisce, fratelli? Me, no. È ciò che vediamo ogni giorno nelle case dove c'è devozione: coloro che vengono spesso alla santa Messa fanno i loro affari molto meglio di quelli ai quali la loro poca fede fa pensare che non ne hanno mai il tempo. Ahimè!, se avessimo riposto tutta la nostra fiducia in Dio, e non contassimo affatto sul nostro lavoro, quanto saremmo più felici di quanto lo siamo!

- Ma, mi direte, se non abbiamo niente, non si dà niente.

- Cosa volete che vi dia il buon Dio, quando non contate che sul vostro lavoro e per niente su di lui? Visto che non vi concedete neanche il tempo per fare le vostre preghiere al mattino né alla sera, e vi accontentate di venire alla santa Messa una volta alla settimana.

Ahimè!, non conoscete le ricchezze della provvidenza del buon Dio per colui che si fida in Lui. Volete una prova evidente? Essa sta dinanzi ai vostri occhi; guardate il vostro pastore e considerate questo. dinanzi al buon Dio.

- Oh!, mi direte, è perché a lei viene dato.

- Ma chi mi dà se non la provvidenza del buon Dio? Ecco dove sono i miei tesori, e non altrove.

Omelia del curato d'Ars per la II domenica dopo Pentecoste

giovedì 3 settembre 2009

La preghiera

«Attraverso la preghiera riusciamo a stare con Dio. Ma chi è con Dio è lontano dal nemico. La preghiera è sostegno e difesa della castità, freno dell’ira, acquietamento e dominio della superbia. La preghiera è custodia della verginità, protezione della fedeltà nel matrimonio, speranza per coloro che vegliano, abbondanza di frutti per gli agricoltori, sicurezza per i naviganti»

San Gregorio di Nissa

PENSIERI

Dopo la S. Comunione, trattenetevi almeno un quarto d'ora a fare il ringraziamento.
Sarebbe una grave irriverenza se, dopo pochi minuti aver ricevuto il Corpo-Sangue-Anima-Divinità di Gesù uno uscisse di chiesa o stando al suo posto si mettesse, a ridere, chiacchierare, guardare di qua e di là per la chiesa.

San Giovanni Bosco

mercoledì 2 settembre 2009

Il dono del sacerdozio


Molto tempo fa, così come recitano le Scritture, Nostro Signore disse: la messe è tanta e gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe perché mandi più operai. E’ passato ormai tanto tempo, ma la situazione rimane la stessa o anche peggiore, giacchè dai mezzi di comunicazione ci rendiamo conto che oggi la carenza di sacerdoti è urgente. Sarebbe opportuno riflettere su che cosa ho fatto io concretamente per fare mandare più operai nella messe del Signore. Se è certamente vero che la prima azione da fare è la preghiera,domandiamoci: io ho pregato semplicemente per avere più sacerdoti o perché anche da casa mia escano sacerdoti?I sacerdoti sono persone normali che vengono fuori da altrettanto normali case e famiglie cristiane. Se noi non indichiamo ai bambini sin da quanto sono in tenera età che il sacerdozio ministeriale è una magnifica missione al servizio di Dio, ...


... sarà certamente molto più complicato che i giovani sentano successivamente il richiamo di Dio. Preghiamo dunque per avere più sacerdoti e specialmente sacerdoti buoni e santi.

Padre Ernesto Maria Caro


fonte PONTIFEX

La serietà della liturgia


Castillon Hoyos: la liturgia è una cosa seria...
di Bruno Volpe

Da poco si è conclusa a Barletta la sessantesima settimana liturgica dal titolo Celebriamo la misericordia di Dio, dedicata prevalentemente al sacramento della Penitenza. Inutile dire che il dibattito ha centrato anche la liturgia in genere.Ne abbiamo discusso con il Cardinale colombiano Dario Castrillon Hoyos, Presidente Emerito della Pontificia Commissione Ecclesia Dei,autentico gentiluomo ed esperto di liturgia.

Eminenza, nel corso del dibattito di Barletta, è emerso un dato per altro già conosciuto. Ovvero,la confessione sacramentale vive un periodo di scarsa fortuna, a che cosa si deve?

“ la verità è che oggi è spesso sparito o comunque si è attenuato fortemente, il senso del peccato. La gente non sa riconoscere o non vuole, i peccati veniali da quelli mortali, non ha questo criterio e talvolta se ne costruisce di suoi. Questo,per altro lato, svilisce il senso di colpa e ... il rispetto della Legge di Dio, ovvero dei Comandamenti”.

Solo responsabilità dei fedeli?

“ nella maggior parte dei casi direi di sì, ma è triste e penoso riconoscere che qualche volta le responsabilità stanno anche tra i sacerdoti, che denotano una scarsa disponibilità al sacrificio e alcune volte rappresentano le condotte peccaminose in modo soft, dunque facendo quasi credere che certe cose siano naturali o normali”.

Passiamo ad aspetti tipicamente liturgici, visto e considerato che abbiamo parlato di sacerdoti. Molte volte si parla della Santa Messa come di festa o banchetto,condivide?

“ dunque, la messa è anche una festa, ma non nel senso pagano in cui si crede. Viene prima,ma molto prima, il concetto di sacrificio incruento di Cristo e una volta compreso che la Messa è sacrificio,dono e mistero, si può parlare di festa. Ma limitarsi alla festa è quasi un aspetto protestante,superficiale”.

Secondo alcuni autori e liturgisti sarebbe venuto meno il senso del sacro...

“ vero e condivido, è venuto meno il senso del sacro. Nel senso di rispetto di adorazione, silenzio, venerazione. Ecco, perché la Messa deve recuperare al più preso questo aspetto di sacralità”.

In alcune chiese,specie di stile moderno, il Tabernacolo è finito in seconda posizione, quasi in un cantuccio,come se il padrone di casa desse fastidio...

“ su questo punto io andrei cauto. Credo certamente che la posizione più corretta del Tabernacolo,proprio per favorire l’adorazione, sia centrale, ovvero collocato nell’altare principale. Questo va benissimo in Chiese piccole e specialmente di modesti centri. Il discorso si fa un poco diverso quando pensiamo a cattedrali grandi o città di arte dove le chiese vengono visitate più per motivi turistici che di fede e anche da non cattolici,penso a San Pietro a Roma. In quei casi mettere il Santissimo in una cappella laterale non è male, a condizione che quella cappella sia un luogo consono e degno a quello che ospita”.

Veniamo agli abusi liturgici durante le messe...

“ si potrebbe fare un campionario,ma io qui non voglio polemizzare e tanto meno stilare paragoni. Mi limito a dire che nessuno è padrone della santa liturgia della Chiesa e ci sono due cose che fanno male al senso del sacro, cioè le invenzioni teologicamente campate in aria di alcuni preti e le arbitrarie modifiche ai testi. Si mettano in testa che nessuno è padrone della liturgia,neppure il sacerdote. Spiacevolmente oggi alcuni sacerdoti,per mania di protagonismo, rassomigliano a mediocri intrattenitori televisivi”.

Che cosa pensa delle celebrazione verso oriente?

“ lo ripeto,non voglio fare polemiche. Ma io la penso come il Papa su questo punto. Il sacerdote è mediatore tra i fedeli e Cristo, non è protagonista,ma attua nella persona di Cristo e a lui umilmente si rivolge alzando le mani. Dunque se si rivolge a Cristo,la posizione più logica e naturale e direi teologicamente corretta, è verso Oriente non per un motivo geografico,ma perché oriente rappresenta il Sole, ovvero Cristo. Questo per alcune parti della liturgia come per le preghiere. Mentre le letture e la relativa spiegazione non hanno alcuna necessità di collocazione ad oriente e possono benissimo essere fatte di volto ai fedeli”.

Fonte Pontifex
dal sito Rinascimento sacro





martedì 1 settembre 2009

VANGELO DELLA DOMENICA

domenica 30 agosto 2009

XXII domenica "per annum"
«Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini>>.

Per noi cattolici, la tradizione è un elemento fondamentale: è lo strumento attraverso cui giunge a noi la rivelazione divina. Siccome tale rivelazione è stata affidata agli apostoli, e da questi trasmessa ai loro successori fino a noi, la chiamiamo “tradizione apostolica”. La Chiesa cattolica vive di tale tradizione: è radicata in essa e da essa trae la sua linfa vitale. Interrompere la tradizione significherebbe per la Chiesa firmare la propria condanna. Abbiamo sotto gli occhi la situazione di quelle comunità ecclesiali che, nei secoli passati, avevano iniziato un nuovo corso, pensando di poter stabilire con Dio un rapporto di tipo diverso — personale, spirituale, immediato — che prescindesse totalmente dalla tradizione della Chiesa. È lo stesso destino che attende quei gruppi e quelle comunità, all’interno della Chiesa cattolica, che hanno considerato il Concilio Vaticano II come un nuovo inizio, come una rifondazione della Chiesa, che ignorava completamente venti secoli di storia.

Eppure Gesú, col vangelo odierno, ci mette in guardia dai pericoli che possono nascondersi anche dietro un formale rispetto della tradizione. I farisei erano attaccatissimi alla tradizione, tanto da scandalizzarsi dei discepoli di Gesú, che, secondo loro, non la rispettavano (non si lavavano le mani prima di mangiare!): «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?». La risposta di Gesú è durissima: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».

Tale risposta ci ricorda una grande verità: da una parte c’è il “comandamento di Dio” (piú in generale, potremmo dire: la “divina rivelazione”), dall’altra c’è la “tradizione degli uomini”. Tra queste due realtà esiste una profonda differenza: la prima è una realtà divina; la seconda, meramente umana. Non che, per questo, la tradizione non abbia alcun valore, sia inutile e da rigettare; ma il suo è un valore unicamente strumentale: la tradizione è, come abbiamo ricordato, il mezzo attraverso cui la rivelazione giunge a noi. Essa non può essere assolutizzata; essa non è fine a sé stessa; per sua natura, essa rinvia al “comandamento di Dio”. Nel momento in cui essa si chiude in sé stessa, si distacca dalla fonte che l’ha generata e pretende di essere punto di riferimento ultimo, essa perde tutto il suo valore e può essere tranquillamente abbandonata; diventa, semplicemente, “tradizione degli uomini”.

scritto da Querculanus
dal blog senza peli sulla lingua

giovedì 27 agosto 2009

PENSIERI

L' eucarestia supera tutti i miracoli per il suo oggetto, tutti li domina per la sua durata.

Giuliano Eymard

lunedì 24 agosto 2009

CONTRO LA CHIESA


Michael Hesemann, "Contro la Chiesa. Miti, leggende nere e bugie", San Paolo 2009, pp. 376, Euro 28, EAN 9788821563836
Sconto su http://www.theseuslibri.it/

Michael Hesemann è l’autore, tedesco, di Titulus Crucis (2000) e Testimoni del Golgota (2003), editi dalla San Paolo.

Ora è uscito con un libro altrettanto straordinario nonché politicamente scorretto:
Contro la Chiesa. Miti, leggende nere e bugie
Indice:

a) La leggenda nera;

1) Nessun sepolcro vuoto?;

2) Giuda Iscariota;

3) Maria Maddalena;

4) Qumran;

5) Le lettere di Gesù;

6) Figlio di Dio?;

7) Il primo papa;
8) Lo scisma;

9) La papessa Giovanna;

10) Le crociate;

11) I catari;

12) Il Santo Graal;

13) I templari;

14) L’Inquisizione;

15) La caccia alle streghe;

16) Giordano Bruno;

17) Galileo Galilei;

18) Infallibile?;

19) Il papa di Hitler?;

20) In nome di Dio?;

b) Mea culpa?.

_____
Hesemann: «Chiesa, troppe leggende nere»
da Avvenire (18/07/2009)

L’imbarazzo è solo nella scelta, ora che l’anti-cattolicesimo è diventato à la page con i successi di Dan Brown e l’anti-clericalismo ha assunto toni colti con i tomi di Corrado Augias. Ma per Michael Hesemann, storico tedesco, è ora di rilanciare la palla nel campo delle critiche prevenute alla Chiesa e smascherare l’anti­cattolicesimo, «l’antisemitismo degli intellettuali». Hesemann, già autore di un saggio sull’iscrizione della croce di Cristo, Titulus Crucis, che fece discutere gli esperti, torna ora in libreria con Contro la Chiesa - Miti, leggende nere e bugie (San Paolo, pp. 374, 28€). Qui lo studioso di Düsseldorf sviscera le “leggende nere” sul conto dei cattolici lungo gli ultimi due millenni di storia.

Le “stragi” delle Crociate, le “violenze” dell’Inquisizione, la “caccia alle streghe”, Pio XII come “il Papa di Hitler”. Qual è, tra queste, l’accusa più inverosimile rivolta alla Chiesa?

La “leggenda nera” che ancora causa un danno considerevole è la pretesa che Pio XII fosse “il Papa rimasto silenzioso durante l’Olocausto” oppure “il Papa di Hitler”. Non si può immaginare una peggior distorsione della verità. Prima di diventare Pio XII, Eugenio Pacelli fu nunzio vaticano a Monaco e Berlino, fu testimone dell’ascesa al potere di Hitler. Come Segretario di Stato della Santa Sede portò avanti i negoziati per il Concordato con i nazisti nel 1933. Quest’uomo ­diventato papa nel 1939 - conosceva Hitler e i nazisti, ne era disgustato fin dall’inizio. Egli definì il nazismo “la più grande eresia del nostro tempo” e bollò Hitler come “una persona fondamentalmente cattiva”.

Si può parlare di Pio XII come amico del popolo ebraico?

Da sempre fu a favore degli ebrei. A scuola aveva un amico ebreo e si univa alla sua famiglia per lo Shabbat. Appoggiò il leader sionista Nahum Sokolov e mostrò simpatia per il sionismo quando la maggior parte degli esponenti vaticani erano scettici su questo. Da nunzio in Germania aveva aiutato gli ebrei già durante la prima guerra mondiale. Quando, divenuto Pio XII, apprese l’uccisione degli ebrei da parte dei nazisti, “gridò come un bambino e pregò come un santo”, come disse un prete che lo informò dei fatti. Cercò di fare ogni cosa umanamente possibile per salvare quanti più ebrei. Secondo il diplomatico e storico israeliano Pinchas Lapide, fu capace di aiutare 850 mila ebrei a sfuggire al genocidio nazista. Quando il Vaticano era a corto di soldi, prese in considerazione l’idea di vendere i migliori capolavori di Raffaello per aiutare i rifugiati ebrei. Dopo la guerra quasi ogni organizzazione ebraica e molti politici israeliani lo ringraziarono per quanto fatto. Ma un commediografo tedesco (Rolf Hochhuth, ndr) costruì un’opera terribile (Il Vicario, ndr) e così l’immagine pubblica di Pio XII cambiò completamente. Il Papa che aveva sfidato Hitler divenne improvvisamente il “Papa amico di Hitler”.

In Italia ci sono libri - come quelli di Augias - che vogliono distruggere la verità storica del cristianesimo. Come devono rispondere i cristiani a questi attacchi?

Augias è un esempio perfetto di autore scandalistico. Certo, è facile ignorarlo, ma è la strategia sbagliata, dal momento che i lettori di quei testi potrebbero credere che abbiamo qualcosa da nascondere. Invece credo in una prassi dell’apertura. La peggior bugia sulla Chiesa primitiva e la sua tradizione è affermare che i Vangeli sono stati manipolati. Niente può essere più lontano dalla verità. Ogni volta che un nuovo frammento di una copia originaria del II o del III terzo dei quattro Vangeli canonici è stata rinvenuta, gli esperti sono rimasti stupiti dal fatto che vi hanno trovato meno variazioni rispetto al testo già conosciuto. I Vangeli sono i testi dell’antichità meglio conservati: nessun autore antico ha una tradizione migliore. La maggior parte dei lavori dei classici greci e romani, scrittori, storici o filosofi, sono conservati in traduzioni arabe dei primi secoli del Medioevo o in copie conservate nei monasteri medievali, scritti forse un migliaio di anni dopo. Nel caso dei Vangeli, meno di un secolo separar i loro autori dai manoscritti più antichi.

Lo studioso Philip Jenkins (anglicano) ha definito l’anti-cattolicesimo “l’ultimo pregiudizio accettabile”. Come mai persistono tante critiche contro la Chiesa?

“L’anti-cattolicesimo è l’antisemitismo degli intellettuali”, scrisse lo scrittore americano Peter Viereck nel 1950: è ancora vero. Questo è il solo pregiudizio non solo tollerato ma anche praticato su ampia scala nei media. Attacca la Chiesa e scrivi un best-seller: questa è la formula di autori come Dan Brown, David Yallop, Donna Cross o John Cornwell. Molti vogliono vedere la caduta della Chiesa: la sua esistenza è una provocazione al mondo moderno. Essa non sembra idonea in una società edonistica, basata sull’egoismo, sul sesso e sul consumismo. È come una roccia, insegna valori eterni in contrasto con il trend libertino del “tutto è lecito”. Essa tramanda una cultura della vita e della responsabilità in contrasto con quella che propugna la morte e il profitto. Benedetto XVI ha ragione quando indica nel relativismo la sfida più grande per la Chiesa nel III millennio. Esso è il credo della società del divertimento senza scopo.

venerdì 21 agosto 2009

BELLEZZA DELLA DEVOZIONE



Per scoraggiare gli israeliti dall'entrare nella terra promessa, molti dicevano che era un paese che divorava gli abitanti, perchè l'aria era talmente pestilenziale che nessuno vi poteva vivere a lungo; per di più era abitata da mostri che divoravano uomini come locuste. Allo stesso modo, mia cara Filotea, la gente comune dice male della devozione e dipinge le persone devote immusonite, tristi, imbronciate, e insinua che la devozione rende malinconici e insopportabili. Ma sull'esempio di Giosuè e di Caleb, i quali sostenevano che la terra promessa era fertile e bella, il suo possesso utile e piacevole, lo Spirito Santo, per bocca di tutti i Santi, e nostro Signore con la sua Parola, ci assicurano che la vita devota è dolce, facile e piacevole.


La gente vede che i devoti digiunano, pregano, sopportano le ingiurie, servono gli infermi, assistono i poveri, fanno veglie, controllano la collera, dominano le passioni, fanno a meno dei piaceri dei sensi e compiono altre azioni simili a queste, di per sé e per loro natura aspre e rigorose; ma non riesce la devozione interiore e cordiale che trasforma queste azioni in piacevoli, dolci e facili.


Lo zucchero rende dolci i frutti un pò acerbi ed elimina ciò che è nocivo in quelli troppo maturi; la devozione è il vero zucchero spirituale, che toglie amarezza alle mortificazionie ed elimina ciò che può esserci di dannoso nelle consolazioni: toglie la collera ai poveri e l'ansia ai ricchi; la desolazione a chi è oppresso e l'insolenza ai fortunati; la tristezza a chi è solo e la distrazione a chi è in compagnia.
Essa è come il fuoco in inverno e la rugiada in estate; sa affrontare e soffrire la povertà; trova ugualmente utile l'onore e il disprezzo; riceve il piacere e il dolore in maniera quasi sempre uguale, e ci colma di una meravigliosa soavità.


Dal libro FILOTEA introduzione alla vita devota
Di San Francesco di Sales

martedì 18 agosto 2009

PENSIERI

La guida sicura per tutti è solo Gesù, il quale ha detto: << Io sono la via, la verità e la vita >>.
Padre Pio

domenica 16 agosto 2009

L' ASSUNTA




SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL'ASSUNZIONE

DELLA BEATA VERGINE MARIA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Parrocchia Pontificia di San Tommaso da Villanova, Castel Gandolfo Lunedì, 15 agosto 2005


Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari Fratelli e Sorelle,

innanzi tutto, un cordiale saluto a voi tutti. Per me è una grande gioia celebrare la Messa nel giorno dell’Assunta in questa bella chiesa parrocchiale. Saluti al Cardinale Sodano, al Vescovo di Albano, a tutti i sacerdoti, al Sindaco, a tutti voi. Grazie per la vostra presenza. La festa dell’Assunta è un giorno di gioia. Dio ha vinto. L’amore ha vinto. Ha vinto la vita. Si è mostrato che l’amore è più forte della morte. Che Dio ha la vera forza e la sua forza è bontà e amore.


Maria è assunta in cielo in corpo e anima: anche per il corpo c’è posto in Dio. Il cielo non è più per noi una sfera molto lontana e sconosciuta. Nel cielo abbiamo una madre. E la Madre di Dio, la Madre del Figlio di Dio, è la nostra Madre. Egli stesso lo ha detto. Ne ha fatto la nostra Madre, quando ha detto al discepolo e a tutti noi: “Ecco la tua Madre!” Nel cielo abbiamo una Madre. Il cielo è aperto, il cielo ha un cuore.


Nel Vangelo abbiamo sentito il Magnificat, questa grande poesia venuta dalle labbra, anzi dal cuore di Maria, ispirata dallo Spirito Santo. In questo canto meraviglioso si riflette tutta l’anima, tutta la personalità di Maria. Possiamo dire che questo suo canto è un ritratto, una vera icona di Maria, nella quale possiamo vederla proprio così com'è. Vorrei rilevare solo due punti di questo grande canto. Esso comincia con la parola “Magnificat”: la mia anima “magnifica” il Signore, cioè “proclama grande” il Signore. Maria desidera che Dio sia grande nel mondo, sia grande nella sua vita, sia presente tra tutti noi. Non ha paura che Dio possa essere un “concorrente” nella nostra vita, che possa toglierci qualcosa della nostra libertà, del nostro spazio vitale con la sua grandezza. Ella sa che, se Dio è grande, anche noi siamo grandi. La nostra vita non viene oppressa, ma viene elevata e allargata: proprio allora diventa grande nello splendore di Dio.


Il fatto che i nostri progenitori pensassero il contrario fu il nucleo del peccato originale. Temevano che, se Dio fosse stato troppo grande, avrebbe tolto qualcosa alla loro vita. Pensavano di dover accantonare Dio per avere spazio per loro stessi. Questa è stata anche la grande tentazione dell’epoca moderna, degli ultimi tre-quattro secoli. Sempre più si è pensato ed anche si è detto: “Ma questo Dio non ci lascia la nostra libertà, rende stretto lo spazio della nostra vita con tutti i suoi comandamenti. Dio deve dunque scomparire; vogliamo essere autonomi, indipendenti. Senza questo Dio noi stessi saremo dei, facendo quel che vogliamo noi". Era questo il pensiero anche del figlio prodigo, il quale non capì che, proprio per il fatto di essere nella casa del padre, era “libero”. Andò via in paesi lontani e consumò la sostanza della sua vita. Alla fine capì che, proprio per essersi allontanato dal padre, invece che libero, era divenuto schiavo; capì che solo ritornando alla casa del padre avrebbe potuto essere libero davvero, in tutta la bellezza della vita. E’ così anche nell’epoca moderna. Prima si pensava e si credeva che, accantonando Dio ed essendo noi autonomi, seguendo solo le nostre idee, la nostra volontà, saremmo divenuti realmente liberi, potendo fare quanto volevamo senza che nessun altro potesse darci alcun ordine. Ma dove scompare Dio, l’uomo non diventa più grande; perde anzi la dignità divina, perde lo splendore di Dio sul suo volto. Alla fine risulta solo il prodotto di un’evoluzione cieca e, come tale, può essere usato e abusato. E' proprio quanto l'esperienza di questa nostra epoca ha confermato.


Solo se Dio è grande, anche l’uomo è grande. Con Maria dobbiamo cominciare a capire che è così. Non dobbiamo allontanarci da Dio, ma rendere presente Dio; far sì che Egli sia grande nella nostra vita; così anche noi diventiamo divini; tutto lo splendore della dignità divina è allora nostro. Applichiamo questo alla nostra vita. E’ importante che Dio sia grande tra di noi, nella vita pubblica e nella vita privata. Nella vita pubblica, è importante che Dio sia presente, ad esempio, mediante la Croce negli edifici pubblici, che Dio sia presente nella nostra vita comune, perché solo se Dio è presente abbiamo un orientamento, una strada comune; altrimenti i contrasti diventano inconciliabili, non essendoci più il riconoscimento della comune dignità. Rendiamo Dio grande nella vita pubblica e nella vita privata. Ciò vuol dire fare spazio ogni giorno a Dio nella nostra vita, cominciando dal mattino con la preghiera, e poi dando tempo a Dio, dando la domenica a Dio. Non perdiamo il nostro tempo libero se lo offriamo a Dio. Se Dio entra nel nostro tempo, tutto il tempo diventa più grande, più ampio, più ricco.


Una seconda osservazione. Questa poesia di Maria - il Magnificat – è tutta originale; tuttavia è, nello stesso tempo, un “tessuto” fatto totalmente di “fili” dell’Antico Testamento, fatto di parola di Dio. E così vediamo che Maria era, per così dire, “a casa” nella parola di Dio, viveva della parola di Dio, era penetrata dalla parola di Dio. Nella misura in cui parlava con le parole di Dio, pensava con le parole di Dio, i suoi pensieri erano i pensieri di Dio, le sue parole le parole di Dio. Era penetrata dalla luce divina e perciò era così splendida, così buona, così raggiante di amore e di bontà. Maria vive della parola di Dio, è pervasa dalla parola di Dio. E questo essere immersa nella parola di Dio, questo essere totalmente familiare con la parola di Dio le dà poi anche la luce interiore della sapienza. Chi pensa con Dio pensa bene, e chi parla con Dio parla bene. Ha criteri di giudizio validi per tutte le cose del mondo. Diventa sapiente, saggio e, nello stesso tempo, buono; diventa anche forte e coraggioso, con la forza di Dio che resiste al male e promuove il bene nel mondo.


E, così, Maria parla con noi, parla a noi, ci invita a conoscere la parola di Dio, ad amare la parola di Dio, a vivere con la parola di Dio, a pensare con la parola di Dio. E possiamo farlo in diversissimi modi: leggendo la Sacra Scrittura, soprattutto partecipando alla Liturgia, nella quale nel corso dell’anno la Santa Chiesa ci apre dinanzi tutto il libro della Sacra Scrittura. Lo apre alla nostra vita e lo rende presente nella nostra vita. Ma penso anche al “Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica”, che recentemente abbiamo pubblicato, nel quale la parola di Dio è applicata alla nostra vita, interpreta la realtà della nostra vita, ci aiuta ad entrare nel grande “tempio” della parola di Dio, ad imparare ad amarla e ad essere, come Maria, penetrati da questa parola. Così la vita diventa luminosa e abbiamo il criterio in base al quale giudicare, riceviamo bontà e forza nello stesso momento.


Maria è assunta in corpo e anima nella gloria del cielo e con Dio e in Dio è regina del cielo e della terra. E’ forse così lontana da noi? E' vero il contrario. Proprio perché è con Dio e in Dio, è vicinissima ad ognuno di noi. Quando era in terra poteva essere vicina solo ad alcune persone. Essendo in Dio, che è vicino a noi, anzi che è “interiore” a noi tutti, Maria partecipa a questa vicinanza di Dio. Essendo in Dio e con Dio, è vicina ad ognuno di noi, conosce il nostro cuore, può sentire le nostre preghiere, può aiutarci con la sua bontà materna e ci è data – come è detto dal Signore – proprio come “madre”, alla quale possiamo rivolgerci in ogni momento. Ella ci ascolta sempre, ci è sempre vicina, ed essendo Madre del Figlio, partecipa del potere del Figlio, della sua bontà. Possiamo sempre affidare tutta la nostra vita a questa Madre, che non è lontana da nessuno di noi.


Ringraziamo, in questo giorno di festa, il Signore per il dono della Madre e preghiamo Maria, perché ci aiuti a trovare la giusta strada ogni giorno. Amen.

lunedì 27 luglio 2009

IL CRISTIANESIMO RISCHIA DI MORIRE?

La Chiesa attraversa una crisi terribile. Ma la crisi e' la sua condizione esistenziale. Dio vuole cosi'. La Chiesa era in crisi gia' quando Giovanni scriveva l'Apocalisse. Ma quando al mondo fosse rimasto anche un solo cristiano, la Chiesa vivrebbe con lui. Vede, la nostra e' l'eta' del degrado. E' come tirare con l'arco. La freccia deve tendersi all'indietro per schizzare in avanti. Ecco, noi oggi siamo compressi all'indietro. Ma siamo alla vigilia di grandi cambiamenti. Il prossimo secolo sara' l'era della nuova evangelizzazione, e la luce tornera' a illuminare la Chiesa.

JEAN GUITTON

lunedì 6 luglio 2009

APERTURA ANNO SACERDOTALE

LETTERA DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER L'INDIZIONE DELL'ANNO SACERDOTALE
IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO
DEL "DIES NATALIS"
DI GIOVANNI MARIA VIANNEY



Cari fratelli nel Sacerdozio,


nella prossima solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, venerdì 19 giugno 2009 – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero –, ho pensato di indire ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo. Tale anno, che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi, si concluderà nella stessa solennità del 2010. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità. Penso a tutti quei presbiteri che offrono ai fedeli cristiani e al mondo intero l’umile e quotidiana proposta delle parole e dei gesti di Cristo, cercando di aderire a Lui con i pensieri, la volontà, i sentimenti e lo stile di tutta la propria esistenza. Come non sottolineare le loro fatiche apostoliche, il loro servizio infaticabile e nascosto, la loro carità tendenzialmente universale? E che dire della fedeltà coraggiosa di tanti sacerdoti che, pur tra difficoltà e incomprensioni, restano fedeli alla loro vocazione: quella di “amici di Cristo”, da Lui particolarmente chiamati, prescelti e inviati?


Io stesso porto ancora nel cuore il ricordo del primo parroco accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete: egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al proprio servizio pastorale, fino a trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il viatico a un malato grave. Tornano poi alla mia memoria gli innumerevoli confratelli che ho incontrato e che continuo ad incontrare, anche durante i miei viaggi pastorali nelle diverse nazioni, generosamente impegnati nel quotidiano esercizio del loro ministero sacerdotale. Ma l’espressione usata dal Santo Curato evoca anche la trafittura del Cuore di Cristo e la corona di spine che lo avvolge. Il pensiero va, di conseguenza, alle innumerevoli situazioni di sofferenza in cui molti sacerdoti sono coinvolti, sia perché partecipi dell’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, sia perché incompresi dagli stessi destinatari del loro ministero: come non ricordare i tanti sacerdoti offesi nella loro dignità, impediti nella loro missione, a volte anche perseguitati fino alla suprema testimonianza del sangue?


Ci sono, purtroppo, anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il mondo a trarne allora motivo di scandalo e di rifiuto. Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi Pastori, di Religiosi ardenti di amore per Dio e per le anime, di Direttori spirituali illuminati e pazienti. A questo proposito, gli insegnamenti e gli esempi di san Giovanni Maria Vianney possono offrire a tutti un significativo punto di riferimento: il Curato d’Ars era umilissimo, ma consapevole, in quanto prete, d’essere un dono immenso per la sua gente: “Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Dio, è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina”. Parlava del sacerdozio come se non riuscisse a capacitarsi della grandezza del dono e del compito affidati ad una creatura umana: “Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”. E spiegando ai suoi fedeli l’importanza dei sacramenti diceva: “Tolto il sacramento dell'Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l'ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest'anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo”.Queste affermazioni, nate dal cuore sacerdotale del santo parroco, possono apparire eccessive. In esse, tuttavia, si rivela l’altissima considerazione in cui egli teneva il sacramento del sacerdozio. Sembrava sopraffatto da uno sconfinato senso di responsabilità: “Se comprendessimo bene che cos’è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma di amore... Senza il prete la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l’opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d’oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti: è lui che apre la porta; egli è l’economo del buon Dio; l’amministratore dei suoi beni... Lasciate una parrocchia, per vent’anni, senza prete, vi si adoreranno le bestie... Il prete non è prete per sé, lo è per voi”.


Era giunto ad Ars, un piccolo villaggio di 230 abitanti, preavvertito dal Vescovo che avrebbe trovato una situazione religiosamente precaria: “Non c'è molto amor di Dio in quella parrocchia; voi ce ne metterete”. Era, di conseguenza, pienamente consapevole che doveva andarvi ad incarnare la presenza di Cristo, testimoniandone la tenerezza salvifica: “[Mio Dio], accordatemi la conversione della mia parrocchia; accetto di soffrire tutto quello che vorrete per tutto il tempo della mia vita!”, fu con questa preghiera che iniziò la sua missione.Alla conversione della sua parrocchia il Santo Curato si dedicò con tutte le sue energie, ponendo in cima ad ogni suo pensiero la formazione cristiana del popolo a lui affidato. Cari fratelli nel Sacerdozio, chiediamo al Signore Gesù la grazia di poter apprendere anche noi il metodo pastorale di san Giovanni Maria Vianney! Ciò che per prima cosa dobbiamo imparare è la sua totale identificazione col proprio ministero. In Gesù, Persona e Missione tendono a coincidere: tutta la sua azione salvifica era ed è espressione del suo “Io filiale” che, da tutta l’eternità, sta davanti al Padre in atteggiamento di amorosa sottomissione alla sua volontà. Con umile ma vera analogia, anche il sacerdote deve anelare a questa identificazione. Non si tratta certo di dimenticare che l’efficacia sostanziale del ministero resta indipendente dalla santità del ministro; ma non si può neppure trascurare la straordinaria fruttuosità generata dall’incontro tra la santità oggettiva del ministero e quella soggettiva del ministro. Il Curato d’Ars iniziò subito quest’umile e paziente lavoro di armonizzazione tra la sua vita di ministro e la santità del ministero a lui affidato, decidendo di “abitare” perfino materialmente nella sua chiesa parrocchiale: “Appena arrivato egli scelse la chiesa a sua dimora... Entrava in chiesa prima dell’aurora e non ne usciva che dopo l’Angelus della sera. Là si doveva cercarlo quando si aveva bisogno di lui”, si legge nella prima biografia.


L’esagerazione devota del pio agiografo non deve farci trascurare il fatto che il Santo Curato seppe anche “abitare” attivamente in tutto il territorio della sua parrocchia: visitava sistematicamente gli ammalati e le famiglie; organizzava missioni popolari e feste patronali; raccoglieva ed amministrava denaro per le sue opere caritative e missionarie; abbelliva la sua chiesa e la dotava di arredi sacri; si occupava delle orfanelle della “Providence” (un istituto da lui fondato) e delle loro educatrici; si interessava dell’istruzione dei bambini; fondava confraternite e chiamava i laici a collaborare con lui.


Il suo esempio mi induce a evidenziare gli spazi di collaborazione che è doveroso estendere sempre più ai fedeli laici, coi quali i presbiteri formano l’unico popolo sacerdotale e in mezzo ai quali, in virtù del sacerdozio ministeriale, si trovano “per condurre tutti all’unità della carità, ‘amandosi l’un l’altro con la carità fraterna, prevenendosi a vicenda nella deferenza’ (Rm 12,10)”. È da ricordare, in questo contesto, il caloroso invito con il quale il Concilio Vaticano II incoraggia i presbiteri a “riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo specifico nell’ambito della missione della Chiesa… Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter insieme a loro riconoscere i segni dei tempi”.


Ai suoi parrocchiani il Santo Curato insegnava soprattutto con la testimonianza della vita. Dal suo esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al tabernacolo per una visita a Gesù Eucaristia. “Non c’è bisogno di parlar molto per ben pregare” – spiegava loro il Curato - “Si sa che Gesù è là, nel santo tabernacolo: apriamogli il nostro cuore, rallegriamoci della sua santa presenza. È questa la migliore preghiera”. Ed esortava: “Venite alla comunione, fratelli miei, venite da Gesù. Venite a vivere di Lui per poter vivere con Lui... “È vero che non ne siete degni, ma ne avete bisogno!”.Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano celebrare il Santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che “non era possibile trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione... Contemplava l’Ostia amorosamente”. “Tutte le buone opere riunite non equivalgono al sacrificio della Messa, perché quelle sono opere di uomini, mentre la Santa Messa è opera di Dio», diceva. Era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: «La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”. Ed aveva preso l’abitudine di offrire sempre, celebrando, anche il sacrificio della propria vita: “Come fa bene un prete ad offrirsi a Dio in sacrificio tutte le mattine!”.


Questa immedesimazione personale al Sacrificio della Croce lo conduceva – con un solo movimento interiore – dall’altare al confessionale. I sacerdoti non dovrebbero mai rassegnarsi a vedere deserti i loro confessionali né limitarsi a constatare la disaffezione dei fedeli nei riguardi di questo sacramento. Al tempo del Santo Curato, in Francia, la confessione non era né più facile, né più frequente che ai nostri giorni, dato che la tormenta rivoluzionaria aveva soffocato a lungo la pratica religiosa. Ma egli cercò in ogni modo, con la predicazione e con il consiglio persuasivo, di far riscoprire ai suoi parrocchiani il significato e la bellezza della Penitenza sacramentale, mostrandola come un’esigenza intima della Presenza eucaristica. Seppe così dare il via a un circolo virtuoso. Con le lunghe permanenze in chiesa davanti al tabernacolo fece sì che i fedeli cominciassero ad imitarlo, recandovisi per visitare Gesù, e fossero, al tempo stesso, sicuri di trovarvi il loro parroco, disponibile all’ascolto e al perdono. In seguito, fu la folla crescente dei penitenti, provenienti da tutta la Francia, a trattenerlo nel confessionale fino a 16 ore al giorno. Si diceva allora che Ars era diventata “il grande ospedale delle anime”.“La grazia che egli otteneva [per la conversione dei peccatori] era sì forte che essa andava a cercarli senza lasciar loro un momento di tregua!”, dice il primo biografo. Il Santo Curato non la pensava diversamente, quando diceva: “Non è il peccatore che ritorna a Dio per domandargli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore e lo fa tornare a Lui”. “Questo buon Salvatore è così colmo d’amore che ci cerca dappertutto”.


Tutti noi sacerdoti dovremmo sentire che ci riguardano personalmente quelle parole che egli metteva in bocca a Cristo: “Incaricherò i miei ministri di annunciare ai peccatori che sono sempre pronto a riceverli, che la mia misericordia è infinita”. Dal Santo Curato d’Ars noi sacerdoti possiamo imparare non solo un’inesauribile fiducia nel sacramento della Penitenza che ci spinga a rimetterlo al centro delle nostre preoccupazioni pastorali, ma anche il metodo del “dialogo di salvezza” che in esso si deve svolgere. Il Curato d’Ars aveva una maniera diversa di atteggiarsi con i vari penitenti. Chi veniva al suo confessionale attratto da un intimo e umile bisogno del perdono di Dio, trovava in lui l’incoraggiamento ad immergersi nel “torrente della divina misericordia” che trascina via tutto nel suo impeto. E se qualcuno era afflitto al pensiero della propria debolezza e incostanza, timoroso di future ricadute, il Curato gli rivelava il segreto di Dio con un’espressione di toccante bellezza: “Il buon Dio sa tutto. Prima ancora che voi vi confessiate, sa già che peccherete ancora e tuttavia vi perdona. Come è grande l’amore del nostro Dio che si spinge fino a dimenticare volontariamente l’avvenire, pur di perdonarci!”. A chi, invece, si accusava in maniera tiepida e quasi indifferente, offriva, attraverso le sue stesse lacrime, la seria e sofferta evidenza di quanto quell’atteggiamento fosse “abominevole”: “Piango perché voi non piangete”, diceva. “Se almeno il Signore non fosse così buono! Ma è così buono! Bisogna essere barbari a comportarsi così davanti a un Padre così buono!”. Faceva nascere il pentimento nel cuore dei tiepidi, costringendoli a vedere, con i propri occhi, la sofferenza di Dio per i peccati quasi “incarnata” nel volto del prete che li confessava. A chi, invece, si presentava già desideroso e capace di una più profonda vita spirituale, spalancava le profondità dell’amore, spiegando l’indicibile bellezza di poter vivere uniti a Dio e alla sua presenza: “Tutto sotto gli occhi di Dio, tutto con Dio, tutto per piacere a Dio... Com’è bello!”. E insegnava loro a pregare: “Mio Dio, fammi la grazia di amarti tanto quanto è possibile che io t’ami”.


Il Curato d’Ars, nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l’amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell’Amore: Deus caritas est (1 Gv 4,8). Con la Parola e con i Sacramenti del suo Gesù, Giovanni Maria Vianney sapeva edificare il suo popolo, anche se spesso fremeva convinto della sua personale inadeguatezza, al punto da desiderare più volte di sottrarsi alle responsabilità del ministero parrocchiale di cui si sentiva indegno. Tuttavia con esemplare obbedienza restò sempre al suo posto, perché lo divorava la passione apostolica per la salvezza delle anime. Cercava di aderire totalmente alla propria vocazione e missione mediante un’ascesi severa: “La grande sventura per noi parroci - deplorava il Santo - è che l’anima si intorpidisce” ; ed intendeva con questo un pericoloso assuefarsi del pastore allo stato di peccato o di indifferenza in cui vivono tante sue pecorelle. Egli teneva a freno il corpo, con veglie e digiuni, per evitare che opponesse resistenze alla sua anima sacerdotale. E non rifuggiva dal mortificare se stesso a bene delle anime che gli erano affidate e per contribuire all’espiazione dei tanti peccati ascoltati in confessione. Spiegava ad un confratello sacerdote: “Vi dirò qual è la mia ricetta: dò ai peccatori una penitenza piccola e il resto lo faccio io al loro posto”. Al di là delle concrete penitenze a cui il Curato d’Ars si sottoponeva, resta comunque valido per tutti il nucleo del suo insegnamento: le anime costano il sangue di Gesù e il sacerdote non può dedicarsi alla loro salvezza se rifiuta di partecipare personalmente al “caro prezzo” della redenzione.


Nel mondo di oggi, come nei difficili tempi del Curato d’Ars, occorre che i presbiteri nella loro vita e azione si distinguano per una forte testimonianza evangelica. Ha giustamente osservato Paolo VI: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. Perché non nasca un vuoto esistenziale in noi e non sia compromessa l’efficacia del nostro ministero, occorre che ci interroghiamo sempre di nuovo: “Siamo veramente pervasi dalla Parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa Parola al punto che essa realmente dia un’impronta alla nostra vita e formi il nostro pensiero?”. Come Gesù chiamò i Dodici perché stessero con Lui (cfr Mc 3,14) e solo dopo li mandò a predicare, così anche ai giorni nostri i sacerdoti sono chiamati ad assimilare quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli.


Fu proprio l’adesione senza riserve a questo “nuovo stile di vita” che caratterizzò l’impegno ministeriale del Curato d’Ars. Il Papa Giovanni XXIII nella Lettera enciclica Sacerdotii nostri primordia, pubblicata nel 1959, primo centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, ne presentava la fisionomia ascetica con particolare riferimento al tema dei “tre consigli evangelici”, giudicati necessari anche per i presbiteri: “Se, per raggiungere questa santità di vita, la pratica dei consigli evangelici non è imposta al sacerdote in virtù dello stato clericale, essa si presenta nondimeno a lui, come a tutti i discepoli del Signore, come la via regolare della santificazione cristiana”. Il Curato d’Ars seppe vivere i “consigli evangelici” nelle modalità adatte alla sua condizione di presbitero. La sua povertà, infatti, non fu quella di un religioso o di un monaco, ma quella richiesta ad un prete: pur maneggiando molto denaro (dato che i pellegrini più facoltosi non mancavano di interessarsi alle sue opere di carità), egli sapeva che tutto era donato alla sua chiesa, ai suoi poveri, ai suoi orfanelli, alle ragazze della sua “Providence”, alle sue famiglie più disagiate. Perciò egli “era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”. Spiegava: “Il mio segreto è semplice: dare tutto e non conservare niente”. Quando si trovava con le mani vuote, ai poveri che si rivolgevano a lui diceva contento: “Oggi sono povero come voi, sono uno dei vostri”. Così, alla fine della vita, poté affermare con assoluta serenità: “Non ho più niente. Il buon Dio ora può chiamarmi quando vuole!”. Anche la sua castità era quella richiesta a un prete per il suo ministero. Si può dire che era la castità conveniente a chi deve toccare abitualmente l’Eucaristia e abitualmente la guarda con tutto il trasporto del cuore e con lo stesso trasporto la dona ai suoi fedeli. Dicevano di lui che “la castità brillava nel suo sguardo”, e i fedeli se ne accorgevano quando egli si volgeva a guardare il tabernacolo con gli occhi di un innamorato. Anche l’obbedienza di san Giovanni Maria Vianney fu tutta incarnata nella sofferta adesione alle quotidiane esigenze del suo ministero. È noto quanto egli fosse tormentato dal pensiero della propria inadeguatezza al ministero parrocchiale e dal desiderio di fuggire “a piangere la sua povera vita, in solitudine”. Solo l’obbedienza e la passione per le anime riuscivano a convincerlo a restare al suo posto. A se stesso e ai suoi fedeli spiegava: “Non ci sono due maniere buone di servire Dio. Ce n’è una sola: servirlo come lui vuole essere servito”. La regola d’oro per una vita obbediente gli sembrava questa: “Fare solo ciò che può essere offerto al buon Dio”.


Nel contesto della spiritualità alimentata dalla pratica dei consigli evangelici, mi è caro rivolgere ai sacerdoti, in quest’Anno a loro dedicato, un particolare invito a saper cogliere la nuova primavera che lo Spirito sta suscitando ai giorni nostri nella Chiesa, non per ultimo attraverso i Movimenti ecclesiali e le nuove Comunità. “Lo Spirito nei suoi doni è multiforme… Egli soffia dove vuole. Lo fa in modo inaspettato, in luoghi inaspettati e in forme prima non immaginate… ma ci dimostra anche che Egli opera in vista dell’unico Corpo e nell’unità dell’unico Corpo”. A questo proposito, vale l’indicazione del Decreto Presbyterorum ordinis: “Sapendo discernere quali spiriti abbiano origine da Dio, (i presbiteri) devono scoprire con senso di fede i carismi, sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici, devono ammetterli con gioia e fomentarli con diligenza”. Tali doni che spingono non pochi a una vita spirituale più elevata, possono giovare non solo per i fedeli laici ma per gli stessi ministri. Dalla comunione tra ministri ordinati e carismi, infatti, può scaturire “un valido impulso per un rinnovato impegno della Chiesa nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo della speranza e della carità in ogni angolo del mondo”. Vorrei inoltre aggiungere, sulla scorta dell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis del Papa Giovanni Paolo II, che il ministero ordinato ha una radicale ‘forma comunitaria’ e può essere assolto solo nella comunione dei presbiteri con il loro Vescovo. Occorre che questa comunione fra i sacerdoti e col proprio Vescovo, basata sul sacramento dell’Ordine e manifestata nella concelebrazione eucaristica, si traduca nelle diverse forme concrete di una fraternità sacerdotale effettiva ed affettiva. Solo così i sacerdoti sapranno vivere in pienezza il dono del celibato e saranno capaci di far fiorire comunità cristiane nelle quali si ripetano i prodigi della prima predicazione del Vangelo.


L’Anno Paolino che volge al termine orienta il nostro pensiero anche verso l’Apostolo delle genti, nel quale rifulge davanti ai nostri occhi uno splendido modello di sacerdote, totalmente “donato” al suo ministero. “L’amore del Cristo ci possiede – egli scriveva – e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti” (2 Cor 5,14). Ed aggiungeva: “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor. 5,15). Quale programma migliore potrebbe essere proposto ad un sacerdote impegnato ad avanzare sulla strada delle perfezione cristiana?


Cari sacerdoti, la celebrazione del 150.mo anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney (1859) segue immediatamente le celebrazioni appena concluse del 150.mo anniversario delle apparizioni di Lourdes (1858). Già nel 1959 il beato Papa Giovanni XXIII aveva osservato: “Poco prima che il Curato d'Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l'immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle. Egli stesso aveva per l'Immacolata Concezione della Santissima Vergine una vivissima devozione, lui che nel 1836 aveva consacrato la sua parrocchia a Maria concepita senza peccato, e doveva accogliere con tanta fede e gioia la definizione dogmatica del 1854”. Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre”.


Alla Vergine Santissima affido questo Anno Sacerdotale, chiedendole di suscitare nell’animo di ogni presbitero un generoso rilancio di quegli ideali di totale donazione a Cristo ed alla Chiesa che ispirarono il pensiero e l’azione del Santo Curato d’Ars. Con la sua fervente vita di preghiera e il suo appassionato amore a Gesù crocifisso Giovanni Maria Vianney alimentò la sua quotidiana donazione senza riserve a Dio e alla Chiesa. Possa il suo esempio suscitare nei sacerdoti quella testimonianza di unità con il Vescovo, tra loro e con i laici che è, oggi come sempre, tanto necessaria. Nonostante il male che vi è nel mondo, risuona sempre attuale la parola di Cristo ai suoi Apostoli nel Cenacolo: “Nel mondo avrete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo” (Gv 16,33). La fede nel Maestro divino ci dà la forza per guardare con fiducia al futuro. Cari sacerdoti, Cristo conta su di voi. Sull’esempio del Santo Curato d’Ars, lasciatevi conquistare da Lui e sarete anche voi, nel mondo di oggi, messaggeri di speranza, di riconciliazione, di pace!


Con la mia benedizione.


Dal Vaticano, 16 giugno 2009

BENEDETTO XVI

giovedì 4 giugno 2009

L'ATTUALITA' DELLA REGOLA BENEDETTINA


23 maggio 2009
Corriere della Sera
La vita dei monaci come esempio. Il Papa indica la regola benedettina
di Vittorio Messori


Perché un papa bavarese del XXI secolo predilige a tal punto un monaco sabino del VI secolo da averne assunto il nome e da considerarlo il patrono del suo pontificato? Perché , fra tanti luoghi che lo invocano, ha scelto di recarsi domani a Montecassino, per una domenica di full immersion nel mondo benedettino ? Perché, poche ore prima della morte dell’amato predecessore, si è recato a Subiaco, dove è iniziata l’avventura del monachesimo d’Occidente, per leggervi ciò che parve una sorta di programma di governo?
Per comprendere una simile attenzione, occorre ricordare che il lucido teologo, l’intellettuale post-moderno divenuto pastore di anime, ha da sempre, e ora più che mai, un assillo : l’indebolirsi della fede di cui è custode e garante . Una fede, ha scritto di recente, "che sembra spegnersi come una candela cui viene a mancare l'alimento". Da qui, la necessità di ritrovare le ragioni del credere, di riconfermare la ragionevolezza della “ scommessa “ sulla verità del Vangelo. L’enorme edificio ecclesiale è in bilico (parola di san Paolo) sulla storicità di un sepolcro vuoto, a Gerusalemme. Se venisse meno questa certezza, non resterebbe che un drammatico "tutti a casa".

Avviene, ormai da decenni, un fatto che inquietava Joseph Ratzinger responsabile dell’ex-Sant’Uffizio e che ora inquieta ancor più Benedetto XVI. Il fatto, cioè, che quanto resta di un cristianesimo falcidiato dal secolarismo tenda a trasformarsi in una associazione mondiale di volontariato, in un’organizzazione no-profit di impegno sociale . L’ amore cui esorta il vangelo è inteso da molti in senso solo “orizzontale“: dunque, la carità del pane e dell’impegno socio- politico per una società più pacifica, giusta, meno inquinata . Questo, in effetti, lo slogan “trinitario“, proposto come nuovo Credo dal Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra: "Pace, giustizia, salvaguardia del creato".

Ebbene: dietro alla rimozione della prospettiva cristiana autentica – che si fa “orizzontale“ come conseguenza della sua “verticalità“, che guarda alla Terra perché crede nel Cielo- c’è una crisi di fede che è il vero, drammatico problema del cristianesimo moderno. Appannata la speranza in una vita eterna nell’Aldilà, i superstiti engagés cercano appagamento sensibile nell’impegno per una vita migliore nel presente, ripiegano sulle certezze tangibili dell’Aldiquà . La fede nell’uomo e nella storia sostituisce quella in Dio e nell’eternità, il militante per le buone cause prende il posto dell’orante e dell’asceta. Cristiani (ma senza Gesù come Cristo-Dio : non usiamo parole troppo grosse!) come filantropi, adepti del volontariato, sindacalisti, ambientalisti, custodi suscettibili dei “ diritti umani“....

E’ una deformazione inquietante che , in un passato recente, è passata attraverso la fase del clerico-marxismo e che ora ha assunto le vesti della nuova ideologia egemone, quella della political correctness, del radicalismo liberal, occidentale . Che importa aderire a dogmi e perder tempo in preghiere, quando c’è un mondo che può salvarsi grazie alle forze umane, di qualunque Credo o incredulità, purché di buona volontà ?

Questa deriva fu causa di angoscia per Paolo VI, fu contrastata dallo straordinario mix di misticismo e di concretezza di Giovanni Paolo II ed è la priorità assoluta su cui intervenire per Benedetto XVI. Tutti gli ultimi papi furono ben consapevoli che – per la logica dell’et-et che sempre lo guida e per il rifiuto di ogni aut-aut - il cristianesimo è chiamato a umanizzare la Città dell’uomo ma perché crede nella Gerusalemme celeste, si infanga nel mondo ma perché prega , si preoccupa dei corpi mortali ma in quanto chiamati all’immortalità. Un equilibrio, una sintesi che sembrano essersi rotti : l’indebolirsi della fede ha sbilanciato coloro che, pur non rinnegando esplicitamente il Credo (la contestazione rumorosa è finita per stanchezza, per senso di irrilevanza , talvolta per dissimulazione), non lo giudicano necessario per il loro darsi da fare.

Anche, forse soprattutto, questo, può spiegare l’attenzione che , sia prima che dopo il pontificato, Joseph Ratzinger ha riservato alla vita monastica. Una vita assurda , insopportabile , anzi disumana. Un ergastolo – la scelta è a vita – ben peggio di quello nelle prigioni pubbliche: rinuncia alla famiglia , astensione dal sesso, nessuna proprietà personale, otto ore di preghiera comunitaria quotidiana più altre in solitudine, veglie notturne , penitenze, alimentazione scarsa e vegetariana interrotta da frequenti digiuni, freddo e caldo, obbedienza pronta e assoluta, divieto di varcare il muro della clausura, lettere e letture sotto controllo, notizie scarse e filtrate dai superiori, convivenza stretta, continua, senza termine con compagni imposti e non scelti… Un inferno. Un inferno che però, può rovesciarsi in un paradiso. Ma solo- solo - in una visione di fede che non esiti sulla verità del Vangelo e sulle sue promesse; un paradiso solo per chi creda, senza dubitare, che Gesù Cristo è davvero ciò che la Chiesa annuncia. Una vocazione per pochi, certo . Ma nella quale si manifesta una fede totale, radicale, che non esita a spingersi sino a quelle estreme conseguenze di cui Montecassino è simbolo illustre da quindici secoli. Il benedettino mostra con la sua vita stessa che la fiamma della sua candela ha ancora alimento. Forse è proprio questa luce, rara e preziosa, che Benedetto XVI vuole additare a noi, credenti sempre più increduli. Noi che del distico monastico abbiamo conservato, semmai, solo il labora, dimenticando del tutto l’ ora.
© Corriere della Sera

lunedì 25 maggio 2009

Benedetto XVI alla Pontificia Accademia Ecclesiastica
.In dialogo con la modernità senza cedere a logiche terrene.

Per comprendere le dinamiche del mondo è necessario saperle interpretare attraverso il Vangelo e il magistero della Chiesa. Lo ha ricordato il Papa alla Pontificia Accademia Ecclesiastica nell'udienza di sabato 23 maggio, nella Sala dei Papi.

Questo il discorso del Papa:

Eccellenza, cari fratelli sacerdoti! È per me una gioia rinnovata accogliere e salutare tutti voi, venuti anche quest'anno per manifestare al Successore di Pietro la testimonianza del vostro affetto e della vostra fedeltà. Saluto il Presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica, Mons. Beniamino Stella, e lo ringrazio per le parole che mi ha cortesemente rivolto, come pure per il servizio che svolge con grande dedizione. Saluto i suoi collaboratori, le Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino, e voi tutti, che in questi anni della vostra giovinezza sacerdotale vi state preparando a servire la Chiesa e il suo Pastore universale, in un singolare ministero, quale è appunto quello svolto nelle Rappresentanze Pontificie. In effetti, il servizio nelle Nunziature Apostoliche si può considerare, in qualche misura, come una specifica vocazione sacerdotale, un ministero pastorale che comporta un particolare inserimento nel mondo e nelle sue problematiche spesso assai complesse, di carattere sociale e politico. È allora importante che impariate a decifrarle, sapendo che il "codice", per così dire, di analisi e di comprensione di queste dinamiche non può essere che il Vangelo e il perenne Magistero della Chiesa. Occorre che vi formiate alla lettura attenta delle realtà umane e sociali, a partire da una certa sensibilità personale, che ogni servitore della Santa Sede deve possedere, e usufruendo di una esperienza specifica da acquisire durante questi anni. Inoltre, quella capacità di dialogo con la modernità che vi è richiesta, nonché il contatto con le persone e le istituzioni che esse rappresentano, esigono una robusta struttura interiore e una solidità spirituale in grado di salvaguardare e anzi di evidenziare sempre meglio la vostra identità cristiana e sacerdotale. Solo così potrete evitare di risentire degli effetti negativi della mentalità mondana, e non vi lascerete attrarre né contaminare da logiche troppo terrene. Poiché è il Signore stesso che vi domanda di svolgere nella Chiesa questa missione, attraverso la chiamata del vostro Vescovo che vi segnala e vi pone a disposizione della Santa Sede, è al Signore stesso che dovete sempre e soprattutto far riferimento. Nei momenti di oscurità e di difficoltà interiore, volgete il vostro sguardo verso Cristo che un giorno vi ha fissati con amore e vi ha chiamati a stare con Lui e ad occuparvi, alla sua scuola, del suo Regno. Ricordate sempre che è essenziale e fondamentale per il ministero sacerdotale, in qualunque modo lo si eserciti, mantenere un legame personale con Gesù. Egli ci vuole suoi "amici", amici che cercano la sua intimità, seguono i suoi insegnamenti e si impegnano a farlo conoscere ed amare da tutti. Il Signore ci vuole santi, cioè tutti "suoi", non preoccupati di costruirci una carriera umanamente interessante o comoda, non alla ricerca del plauso e del successo della gente, ma interamente dediti al bene delle anime, disposti a compiere fino in fondo il nostro dovere con la consapevolezza di essere "servi inutili", lieti di poter offrire il nostro povero apporto alla diffusione del Vangelo. Cari sacerdoti, siate, in primo luogo, uomini di intensa preghiera, che coltivano una comunione di amore e di vita con il Signore. Senza questa solida base spirituale come sarebbe possibile perseverare nel vostro ministero? Chi così lavora nella vigna del Signore sa che quanto viene realizzato con dedizione, con sacrificio e per amore, non va mai perduto. E se talora ci è dato di assaporare il calice della solitudine, dell'incomprensione e della sofferenza, se il servizio ci risulta talora pesante e la croce qualche volta dura da portare, ci sostenga e ci sia di conforto la certezza che Dio sa rendere tutto fecondo. Noi sappiamo che la dimensione della croce, ben simboleggiata nella parabola del chicco di grano che sepolto in terra muore per dare frutto - immagine usata da Gesù poco prima della sua passione - è parte essenziale della vita di ogni uomo e di ogni missione apostolica. In ogni situazione dobbiamo offrire la lieta testimonianza della nostra adesione al Vangelo, accogliendo l'invito dell'apostolo Paolo a vantarci solamente della croce di Cristo, con l'unica ambizione di completare in noi stessi ciò che manca della passione del Signore, a favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24). Occasione quanto mai preziosa per rinnovare e rafforzare la vostra risposta generosa alla chiamata del Signore, per intensificare la vostra relazione con Lui, è l'Anno Sacerdotale, che avrà inizio il prossimo 19 giugno, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e Giornata di santificazione sacerdotale. Valorizzate al massimo questa opportunità per essere sacerdoti secondo il cuore di Cristo, come san Giovanni Maria Vianney, il santo Curato d'Ars, del quale ci apprestiamo a celebrare il 150° anniversario della morte. Alla sua intercessione e a quella di sant'Antonio Abate, Patrono dell'Accademia, affido questi voti ed auspici. Vegli materna su di voi e vi protegga Maria, Madre della Chiesa. Quanto a me, mentre vi ringrazio per la vostra odierna visita, vi assicuro il mio speciale ricordo nella preghiera, e imparto di cuore la Benedizione Apostolica a ciascuno di voi, alle reverende Suore, al personale della Casa e a tutti coloro che vi sono cari.

(©L'Osservatore Romano - 24 maggio 2009

LA CRISI ATTUALE NELLA CHIESA: CHE COSA E’ ANDATO STORTO?


“I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano
crudelmente opposti alle attese di tutti [..]
Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati
di fronte a un processo progressivo di decadenza. [..]
Vie sbagliate [..] hanno portato a conseguenze
indiscutibilmente negative” (J. Ratzinger in V. Messori,
Rapporto sulla fede, Ed. Paoline 1985, 27 s.)

Che esista una crisi nella Chiesa a partire dagli anni Sessanta del Novecento è sotto gli occhi di tutti e non staremo ad indugiare su questo crudele fatto, attestato dal crollo subitaneo e fortissimo di tutti gli indicatori, come vocazioni, percentuali di persone che si dicono cattoliche, pratica religiosa, accesso ai sacramenti, e così via: Giovanni Paolo II ha coniato in proposito l’espressione di apostasia silenziosa (Ecclesia in Europa, 9). Sono elementi, certo, quantitativi, ma ormai nessuno o quasi si azzarda più a sostenere la favoletta che in termini qualitativi vi sia stato progresso, dato che è difficile sostenere che siano migliori, più motivati e meglio formati, rispetto a ieri, i decimati frequentatori delle parrocchie, la cui età media tra l’altro è in costante aumento per assenza di trasmissione della fede ad ampi strati delle giovani generazioni.

La domanda che si pone spontanea è allora: vista l’oggettiva concomitanza temporale tra l’esplodere della crisi e la conclusione del Concilio Vaticano II, si deve ritenere quest’ultimo causa, ovviamente involontaria, di tanto disastro? Si può, in altri termini, applicare il principio, pur in logica fallace, post hoc ergo propter hoc? O dobbiamo invece ascrivere la frana ad elementi esogeni ed esterni, come la rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta, il Sessantotto, il secolarismo o il marxismo, ecc., e magari cercare di perpetuare l’apologia del Concilio se non più (perché i dati impietosi e cocciuti rendono ormai risibili quelle definizioni) come nuova Pentecoste e primavera della Chiesa (già Paolo VI, in una famosa omelia, diceva che dopo il Concilio, anziché un giorno di sole, eran venuti tempesta, buio e incertezza), almeno come rimedio palliativo e “toppa” ad una tendenza antireligiosa che sarebbe stata ancora più devastante senza le aperture conciliari?

La questione è oggetto di studio in campo sociologico e si può ritenere che si sia giunti a conclusioni sufficientemente ferme e mature. Consigliamo vivamente di leggere in proposito il bellissimo contributo di uno dei più grandi sociologi delle religioni, Massimo Introvigne, «Il rumore confuso dei clamori ininterrotti», pubblicato dal sito Cesnur. Noi vogliamo in questa sede ripercorrere, in estrema sintesi divulgativa, le conclusioni di questo scritto, estratto di un più ampio lavoro.

In primo luogo, dobbiamo chiarire che non ha molto senso “fare il processo” al Concilio. Ce lo vieta innanzi tutto la Fede, che ci impone di vedere in quell’evento un segno dello Spirito Santo e della Provvidenza: su un piano ultramondano, il Concilio può avere prodotto benefici di grazia o forse ne produrrà nel lungo, anzi lunghissimo termine (ché in effetti in questo lasso di 40 anni è arduo scorgerne). Vengono alla mente le parole di S. Basilio dopo il Concilio di Nicea, richiamate dal Papa nel suo discorso alla curia romana del 22.12.2005: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …”. Eppure nessuno dubita dell’importanza e provvidenzialità del Concilio di Nicea, nonostante le sue immediate conseguenze negative, deplorate da S. Basilio. Ma più ancora, il Concilio Vaticano è qui fuori discussione poiché, come sempre il Papa ha osservato nell’allocuzione appena citata, di esso è stata data un’interpretazione di rottura che è lontanissima dalla verità e dall’effettività dei testi conciliari, che per inciso l’allora perito Ratzinger conosce bene. Quindi la nostra breve indagine è se non tanto il Concilio vero e proprio (i suoi documenti e l’evento in sé), bensì la sua percezione come momento di rottura e nuovo inizio, sia stato o meno la causa della crisi odierna della Chiesa; quanto al Concilio vero, essendo stato sopraffatto e sostituito da un’idea artefatta e modernista di esso, non può avere avuto efficienza causale proprio perché... mai messo veramente in pratica nei modi che i suoi stessi documenti richiedevano.

Orbene, al quesito che ci siamo posto la risposta dei sociologi è affermativa: causa della crisi del cattolicesimo è stato proprio il Concilio per come è stato recepito e percepito (non quindi, ripetiamo ancora, il Concilio in sé per come è, ma potremmo dire il Post-Concilio, la mentalità progressista ‘di rottura’ ispirata ad un abusivo Spirito del Concilio, che è divenuta maggioritaria negli anni immediatamente successivi al 1965).

Per giungere a tali conclusioni, gli studi citati da M. Introvigne si sono appuntati su dati statistici: ad esempio nel periodo 1965-1995 le vocazioni sacerdotali e quelle religiose femminili sono calate nei paesi nordeuropei e negli Usa in percentuali variabili tra il 50 e l’80 per cento; per contro in Spagna e Portogallo (che fino al 1975 furono soggetti a dittature di destra che si frapposero all’applicazione dell’aggiornamento postconciliare) il calo comincia solo dopo il ritorno alla democrazia e il recupero, da parte delle istanze ecclesiali iberiche, delle posizioni arretrate rispetto alle chiese più “avanzate” del resto d’Europa.

Allargando lo sguardo al di fuori del cattolicesimo, si nota inoltre come aumenti la diffusione delle religioni maggiormente integraliste e rigoriste, quali i pentecostali; senza considerare l’Islam, che conosce una spettacolare espansione in concomitanza con il ritorno a posizioni senza dubbio antemoderne (si pensi al velo femminile o all’applicazione della sharìa: pratiche quasi obsolete alcuni decenni fa, almeno nei centri urbani mediorentali, ed oggi sempre più all’ordine del giorno). Per contro le religioni più liberal, lassiste e ritenute “al passo coi tempi”, sono in gravissima crisi, anche peggiore del cattolicesimo: la chiesa luterana di Stato svedese, che da tempo prevede un rituale di benedizione di unioni omosessuali, conosce una pratica del 3%; la chiesa anglicana, poi, è sull’orlo del collasso e dello scisma per la questione dell’ordinazione di gay “in attività” oltreché, in misura minore, per l’ordinazione femminile: e anche qui è interessante notare la relativa maggior vitalità delle province anglicane africane, più rigoriste, rispetto all’ala più liberale rappresentata dagli episcopaliani americani, ridotti a poco più di due milioni (episcopaliano è il vescovo omosessuale Gene Robinson, divorziato dalla moglie e convivente con un uomo col quale si è da poco sposato civilmente, dichiarando di aver sempre sognato d’essere una june bride, qualcosa di analogo a una “sposa di maggio”: v. riferimenti qui).

Insomma: pare evidente che sussista una proporzione inversa tra le posizioni “moderne” e al passo coi tempi rispetto agli indicatori di vitalità di una religione. Ossia, in altri termini, se una fede è severa e rigorista, attira più fedeli. Eppure si sente spesso ripetere l’opinione secondo cui il Cattolicesimo perde colpi perché non è in sintonia col mondo attuale e mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale sessuale (si pensi alle tematiche del divorzio, dell’aborto, dei mezzi anticoncezionali, in cui effettivamente ben pochi, anche tra i cattolici dichiarati e praticanti, seguono fino in fondo il magistero). Come si spiega questa apparente contraddizione, che sembra manifestare una sorta di “masochismo” dei fedeli, contenti solo quando la loro religione li costringe a posizioni conflittuali con l’orientamento permissivo maggioritario della società?

A questo paradosso dà una spiegazione razionale la sociologia delle religioni. Mentre alcuni decenni fa si pensava che il successo di una religione dipendesse dalla mentalità dei fedeli, sicché in una società secolarizzata avrebbero retto meglio quelle religioni che agli imperativi della secolarizzazione, e quindi alle opinioni della gente, si fossero in qualche modo adattate o aggiornate, successivamente tale tesi, denominata vecchio paradigma, è stata superata e perfino rinnegata dal suo primo propugnatore (Harvey Cox, il quale la propose in un influentissimo testo del 1965 intitolato La città secolare, ma trent’anni dopo riconobbe l’infondatezza delle premesse sociologiche e fattuali su cui la sua tesi era fondata).

Si è scoperto infatti che, dal lato dei fedeli, la domanda di senso religioso resta sostanzialmente costante, mentre quel che cambia è, sul lato dell’offerta, quanto una Chiesa o religione organizzata è in grado di proporre (cosiddetto nuovo paradigma); ed è precisamente questo che determina la crescita o la crisi di una religione. Infatti nell’ultimo mezzo secolo non è diminuita globalmente la percentuale di persone credenti: semplicemente, molte hanno cambiato fede (alle perdite della Chiesa cattolica e delle denominazioni protestanti storiche, e ormai liberaleggianti, ha corrisposto non l’aumento di atei ma la speculare crescita di denominazioni più fondamentaliste come i pentecostali, gli evangelici, i Testimoni di Geova e i Mormoni). Se fosse invece vera la tesi del ‘vecchio paradigma’, tutte le religioni indistintamente avrebbero dovuto soffrire per la secolarizzazione, e semmai resistere con minori perdite proprio le religioni più aperte alle evoluzioni permissive della società.

Ma se queste constatazioni descrivono la situazione per come è, esse non individuano ancora il meccanismo per cui guadagnano le religioni che si pongono contro le tendenze generali della società. La spiegazione è nella teoria delle nicchie: la domanda religiosa si indirizza verso una di queste cinque ‘nicchie’, distinte a seconda del loro grado di conflittualità decrescente con la mentalità secolarizzata: ultra-rigorosa, rigorosa, centrale, progressista e ultra-progressista. La sociologia (stiamo sempre seguendo lo studio di M. Introvigne) ha verificato che la distribuzione dei fedeli nelle varie nicchie è diseguale: mentre nelle due nicchie estreme si collocano in pochissimi (quella ultra-rigorosa è di solito la nicchia di una nuova religione nel suo stadio iniziale, tendenzialmente ‘settario’), il grosso dei fedeli rientra nei due segmenti “rigoroso” e “centrale”. Relativamente pochi si collocano invece nella nicchia “progressista” e pochissimi, come detto, in quella ultra-progressista. Verrebbe allora da chiedersi come mai la società moderna sia così progressista e secolarizzata, allorché la corrispondente nicchia religiosa è poco frequentata: il fatto si spiega semplicemente perché i fautori di tale mentalità ‘moderna’ nella maggior parte dei casi sono del tutto a-religiosi e non rientrano perciò in alcuna delle nicchie elencate; sono i cosiddetti “laici” (ma sarebbe meglio dire laicisti), privi di affiliazione con qualsiasi chiesa e in genere molto influenti, anche se minoritari, nella società e nei “salotti buoni” dei mezzi di comunicazione, sì da poter determinare l’orientamento generale verso un sempre maggior secolarismo. E’ un dato di fatto inoltre che le nicchie progressista e ultra-progressista subiscono una continua erosione verso l’esterno, ossia molti di coloro che le componevano finiscono con l’abbandonare del tutto la dimensione religiosa ed escono dal “sistema delle nicchie” (si pensi ad esempio a quanti preti, laici e religiosi “impegnati” e progressisti hanno lasciato la Chiesa negli anni ’70 e ‘80). Evidentemente la domanda di senso religioso delle persone si accompagna maggioritariamente con la ricerca di una risposta totalizzante ed impegnativa, che renda la fede degna d’esser vissuta, e questo provoca l’affollamento delle nicchie rigorosa e centrale; invece chi si accontenta di un sistema religioso più lassista e con credenze più vaghe od ambigue (i cosiddetti cafeteria catholics, quelli intenti a scegliere nella religione solo quel che loro aggrada), è maggiormente esposto al rischio di cadere nell’indifferentismo e quindi alla fine nell’abbandono tout court della dimensione religiosa (con conseguente uscita dalle “nicchie”).

La conseguenza di queste constatazioni sociologiche è che una religione prospera finché la sua offerta di senso religioso è in grado di soddisfare i fedeli rientranti nelle nicchie rigorosa o centrale; entra in crisi se invece l’offerta diviene appetibile piuttosto per la nicchia progressista o, peggio ancora, per quella ultraprogressista.

Secondo una convincente ricostruzione sociologica, sempre riportata da M. Introvigne nello studio qui compendiato, la Chiesa cattolica subito prima del Concilio si collocava in un’area “rigorosa”, in movimento verso quella “centrale”. Il Concilio avrebbe voluto e dovuto completare tale evoluzione riformista portando la Chiesa nella nicchia centrale, che come si è visto è quella di maggior successo. Ma il problema è che il movimento è difficilissimo da governare e richiede una gradualità non di decenni, ma di secoli; il rischio è quello che, una volta messo in moto il processo, si verifichi, come già avvenuto in precedenza con altre denominazioni (anglicani, metodisti, presbiteriani), un’accelerazione, alimentata dalla mentalità secolare dominante, che porta irresistibilmente in direzione delle nicchie progressista e ultra-progressista. Ed è precisamente quanto accaduto col Postconcilio. In particolare i sociologi americani considerano come emblematici del superamento dei confini verso le fasce progressiste, due riforme particolarmente gravide di conseguenze, perché in grado di essere immediatamente percepite dalla gran massa dai fedeli (meno toccati, invece, da innovazioni più squisitamente dottrinali e quindi estranee alla percezione dei più): l’abbandono della liturgia in latino e l’abolizione dell’astinenza dalle carni il venerdì (quest’ultimo elemento, che a noi può sembrare molto secondario, è invece sempre stato un forte elemento identitario nei paesi non interamente cattolici; questo ci ricorda che si dice abbia fatto più, per la diffusione del movimento pitagorico nell’antichità, il divieto di mangiar fave, che tutte le teorie geometriche e numerologiche del grande Pitagora).

Ecco, quindi, la conclusione: qualcosa è andato veramente storto ed ha portato alla crisi attuale della Chiesa: non una presunta ritrosia nell’abbracciare i nuovi valori dominanti della società secolarizzata (come vogliono certe datate ricostruzioni, come quella della Scuola di Bologna di Alberigo, che rimproverano a Paolo VI di avere, specie con la Humanae Vitae sulla morale sessuale, contenuto e limitato l’anelito rinnovatore del Concilio), bensì tutt’al contrario “uno slittamento dell’offerta cattolica verso una nicchia del mercato, quella progressista, dove ci sono meno consumatori di beni religiosi”; e tutto questo non per effetto del Concilio in sé, sibbene di come è stato percepito ed applicato, ossia “precisamente come un mutamento dell’offerta inteso a diluire la specificità del cattolicesimo rispetto sia ad altre offerte religiose sia alla cultura dominante”.